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Oggi parliamo di Tiziano Vecellio. Il testo che andrete a leggere è un tipo di lavoro non tradizionale che molti professori richiedono: un’intervista immaginaria a un personaggio del passato (in questo caso un pittore) in cui si cerca di raccontare vita, morte e miracoli del personaggio in questione.
Quella che andrete a leggere è un’intervista impossibile a Tiziano Vecellio, pittore Veneziano del ‘500, fatta nel momento in cui viene nominato pittore ufficiale della Serenissima Repubblica di Venezia. L’artista racconta all’intervistatore la sua vita fino a quel momento, la sua infanzia, la sua formazione e alla fine commenta una sua opera. Al termine dell’intervista vi è un sommario sulla vita e le opere successive al momento dell’intervista.
Ho dato anche un titolo originale al testo, cosa che viene richiesta spessissimo.
Tiziano Vecellio

Intervista immaginaria a Tiziano Vecellio

VENEZIA.  BRILLANTE come sempre Tiziano Vecellio, appena nominato dal nostro amatissimo doge Leonardo Loredan pittore ufficiale della Serenissima dopo la dipartita dell’eccelso maestro Giovanni Bellini, tragicamente scomparso il 26 novembre scorso alla veneranda età di ottantatré anni. L’abbiamo raggiunto e si è mostrato disponibile a rispondere alle nostre domande.
Tiziano pittore ufficiale della Serenissima. Una bella gratifica per un ragazzo venuto dal Cadore, o no?
(Ride) Beh, non ci si può lamentare. Rispetto a Pieve, il piccolo villaggio in montagna in cui sono nato e cresciuto, Venezia è tutta un’altra cosa.  Una città meravigliosa,  piena di opportunità e occasioni, chiunque sognerebbe di viverci.
A questo punto, ci hai buttato l’amo, raccontaci un po’ di te, della tua infanzia e giovinezza, di com’era la tua vita prima di diventare il maestro che sei ora.
La mia non è stata un’infanzia particolarmente particolare. La famiglia in cui sono nato era abbastanza messa bene economicamente, perché da generazioni siamo impegnati in attività di giureconsulto e amministrazione, mio padre Gregorio in particolare è capitano delle milizie. Trascorrevo l’infanzia come ogni bambino, fino alla scintilla che sembra essere scoppiata in me più o meno intorno ai miei dieci anni.
Spiegati meglio.

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Non so dire con esattezza cosa mi sia capitato quel giorno, ma mi venne come uno strano impulso interiore e andò a finire che dipinsi sul muro di casa un’immagine della Vergine Maria, utilizzando colori ricavati dalla spremitura di erbe e fiori di quelli che si trovano abitualmente nel territorio in cui sono nato e cresciuto. Quello fu il mio primo lavoro artistico in assoluto; prima di quel momento, infatti, ignoravo totalmente la pittura, il disegno e tutte le attività a esso collegate. In famiglia lo stupore era alle stelle e mio padre, sant’uomo, entusiasta di aver ‘trovato un genio in casa’, non ci pensò due volte a mandarmi a Venezia insieme a mio fratello Francesco. Lì eravamo ospiti di nostro zio Antonio, che lavorava per il doge. Andammo tutti e due a bottega presso un noto mosaicista, che ci insegnò le basi della pittura. Francesco si vedeva da subito che non era ‘arte sua’ quella (ride) e dopo poco abbandonò, preferendo l’attività imprenditoriale e la vita militare, io invece proseguii con gli studi e iniziai a prendere lezioni da Gentile Bellini, che ai tempi ricopriva la carica che ora ricopro io. Quando però il maestro morì, iniziai a collaborare con suo fratello Giovanni (molto più famoso), che gli subentrò anche come pittore ufficiale. 

Com’è stato l’impatto con Venezia, com’era l’aria che si respirava al tuo arrivo?
Beh, bisogna considerare anche che ero poco più di un bambino quando arrivai qui, ma comunque lo shock iniziale non mi fu del tutto indifferente: la città era enorme, piena di gente di qualsiasi colore ed etnia, le lingue che sentivo parlare, i colori e gli odori che respiravo mi erano del tutto nuovi (avevo vissuto fino a quel momento in una realtà molto ridotta). Si vedeva che la città era come entrata in un età dell’oro, si vedeva la ricchezza e l’opulenza in cui era immersa: qualsiasi cosa cercassi, sta’ sicuro che al mercato di Venezia lo trovavi, ma questo tipo di atmosfera la si respira ancora adesso. Naturalmente, da città moderna, aperta e cosmopolita qual è, Venezia offre anche l’opportunità a molti grandi intellettuali e artisti di esprimersi liberamente, cosa che altrove non potrebbero fare perché perseguitati. A Venezia conobbi menti del calibro di Leonardo, Dürer (che ci ha fatto visita più e più volte) e anche pittori come Carpaccio, Lorenzo Lotto, Luciani detto ‘il Piombo’ e quello che mi ha influenzato di più in assoluto, un incontro che non dimenticherò mai, Giorgione da Castelfranco. Venezia era per me un sogno che si stava realizzando sotto i miei occhi.
Perché dici che l’incontro con Giorgione è stato particolarmente significativo per te?
Ci conoscemmo sul campo: nel 1505 andò a fuoco il Fontego dei Tedeschi e nel 1508, quando la sua costruzione fu terminata, io e lui fummo incaricati di affrescarlo. Giorgio si prese la facciata più grande e importante, quella che dà sul Canal Grande, io invece quella interna, sulla calle delle Mercerie. Il lavoro finale fu meraviglioso, sia quello del gran maestro di Castelfranco ma anche il mio, tanto che, e non lo dico per vantarmi, è quasi scoppiata una disputa tra me e lui perché i passanti, vedendo la meraviglia che era l’affresco sul lato della calle (un’allegoria della giustizia), lo attribuivano a lui e non a me. Da quel momento è nata una particolare amicizia tra di noi, amicizia che si vede anche nelle mie opere come per esempio il ‘Concerto Campestre’ o l’ ‘Amor sacro e amor profano’. Da lui ho preso soprattutto il modo di utilizzare il colore e la concezione che l’arte non deve essere semplice imitazione del reale, ma sviluppare il rapporto dell’uomo con la natura e ciò che lo circonda, cosa che ho reso mia e interpretato a mio modo, soprattutto nei miei ritratti. Se uno, però, guarda un mio quadro e uno di Giorgione, riconosce subito quale dei due è il mio, perché anche se all’apparenza possiamo sembrare simili, in realtà siamo molto diversi, soprattutto sul piano della personalità. Cinque anni fa, scoppiò la pestilenza a Venezia e Giorgione fu tra le vittime; per non fare la stessa fine del mio amico scappai a Padova, dove mi era stato assegnato un incarico artistico da portare a termine.
Che tipo di incarico?
Mi chiesero di compiere tre grandi affreschi nella Scuola di Sant’Antonio, ed è stata la prima commissione in assoluto che mi fu assegnata in solitaria. Diciamo che me la cavai piuttosto bene: mi cimentai nel dipingere competizioni di grande respiro, dove il colore giocava un ruolo dominante come, non mi vergogno a dirlo, neanche il mio maestro Giovanni Bellini, pace all’anima sua, sarebbe stato in grado di fare. La tavola che mi riuscì meglio fu quella del Miracolo del marito geloso, che mi consacrò al pubblico come l’unico e autentico erede di Giovanni Bellini. Tutti gli altri pittori cominciavano a sentire il mio peso e ci fu chi scappò da Venezia. Il successo stava iniziando ad arrivare e qualcuno tra i Dieci si stava rendendo conto di me…
A cosa ti dedicasti dopo?
Dopo la positiva esperienza padovana mi sentivo lanciatissimo, anche perché la concorrenza a Venezia era pressoché ridotta al minimo. Io e la mia bottega iniziammo a ricevere commissioni su commissioni, di cui moltissime da privati cittadini molto facoltosi che richiedevano di essere ritratti. Fu li che capii che se volevo veramente avere successo in questo campo, era ai ritratti che dovevo dedicarmi. Oltre a quelli, però, mi dedico anche a opere di altro genere, soprattutto grandi tavole a tema religioso e allegorie e credo che siano proprio queste ultime che mi hanno lanciato verso la carica che ricopro adesso.
A proposito della tua nomina, hai qualche retroscena da raccontarci? Qualche aneddoto che è sfuggito ai riflettori?
Sì, certo. Io in realtà ero pittore ufficiale già dal 1513, però quella cariatide non si decideva a morire  e quindi mi è toccato aspettare. Non si dovrebbe parlare male dei morti, soprattutto se è a loro che devi il tuo successo, però…
Hai parlato di allegorie, ce n’è una che hai completato abbastanza di recente e che il grande pubblico ha trovato abbastanza oscura. Sto parlando della tavola “Amor sacro e amor profano”(il titolo è stato attribuito nel ‘700 dopo una lettura moralistica dell’opera, la chiamo così in questo testo per facilitare la spiegazione)...potremmo avere l’onore di conoscere l’interpretazione diretta del maestro?
Eh qua mi si chiede troppo, dovrei chiedere un extra (ride)…
Dài maestro, fallo per amore dell’arte…

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D’accordo, se me la metti in questi termini. Questa tavola mi è stata chiesta e commissionata dal gran cancelliere di Venezia Niccolò Aurelio per le sue nozze. Il cancelliere, prima di sposare la sua amata, ne aveva fatto uccidere il padre e a questo rimanda il sarcofago con lo stemma posto al centro della composizione. Sarcofago che è anche una sorta di fontana ma che vedremo dopo il significato. Il dipinto è una tavola di grandi dimensioni dipinta a olio su tela.

Il quadro lo conoscete, in un paesaggio di campagna molto simile a quello in cui ho vissuto la mia infanzia si trova un sarcofago/fontana con due figure femminili poste alla destra e alla sinistra e con un amorino intento a rimestare l’acqua contenuta dentro il sarcofago. Il modello è cosa già vista, in effetti la scelta di ambientare la scena in campagna ricorda molto l’opera dei miei maestri Bellini e Giorgione, ma le figure umane sono elevate ad una grandiosità quasi classica, questo per rendere meglio il concetto che esprimono, che è un concetto che si rifà all’antica filosofia di Platone, secondo cui la contemplazione della bellezza era finalizzata a percepire la perfezione dell’ordine del cosmo. Le due donne sono simboli: la prima, quella sulla sinistra di chi guarda, quella vestita come da sposa simboleggia la voluptas, che è il concetto classico del desiderio terreno e della breve felicità in terra, mentre l’altra, quella sulla destra di chi guarda, quella svestita, è il simbolo dell’amore eterno e della felicità eterna ultraterrena che sta in Dio, come si evince dalla fiamma che reca in mano. L’amorino invece è simbolo dell’amore, che si trova a mediare questi due concetti (simboleggiati anche dalle acqua contenuta nel sarcofago/fonte) creando l’armonia dell’amore nuziale. 
Sono stato esaustivo?
Come sempre maestro, alla prossima!
Vi ringrazio per avermi concesso questo spazio, alla prossima.

Dopo la nomina a pittore ufficiale, la vita e il successo di Tiziano come pittore decollarono e riuscì a togliersi anche qualche soddisfazione economica. Grazie ai suoi investimenti commerciali diventò il primo pittore imprenditore della storia dell’arte e anche il più ricco pittore di sempre. Il suo nome e la sua fama di ritrattista giunsero addirittura alla corte di Spagna, dove risiedeva l’imperatore Carlo V, il più potente sovrano del Mondo, quello dell’impero sul quale non tramontava mai il sole. Carlo voleva farsi ritrarre dal migliore e voleva che Tiziano si trasferisse in Spagna da lui. Tiziano però amava la sua città e non voleva lasciarla, quindi riuscì a ottenere con l’aiuto del nuovo doge Andrea Gritti la possibilità di poter lavorare a distanza. Dipinse molti ritratti dell’imperatore e di sua moglie e per questo ricevette molte onorificenze, tra cui la nomina a Conte del Palazzo del Laterano. Sempre con questo sistema del lavoro a distanza, dipinse numerosi lavori anche per la corte d’Este e quella di Urbino, dove produsse alcuni dei suoi capolavori migliori come la Venere di Urbino. L’unica volta che decise di abbandonare la sua Venezia fu nel 1545, quando intraprese un viaggio a Roma, dove lavorò per i Farnese. Nella città eterna conquistò l’ammirazione di un certo  Michelangelo, che da poco aveva terminato il suo Giudizio Universale. Quando però rientrò a Venezia, la scena gli venne rubata da due emergenti pittori, che conquistarono il monopolio delle commissioni nella Serenissima: il Tintoretto, Robusti e Paolo Veronese. Da quel momento il suo successo inizia a diminuire e si ritrova a lavorare soltanto più per il nuovo re di Spagna Filippo II, ritrovandosi a produrre principalmente opere di carattere religioso. Come successe al suo amico e maestro Giorgione, anche Tiziano viene colto dalla peste e nel 1576 muore, molto anziano, senza lasciare alcun erede artistico, un allievo che raccogliesse la sua identità come lui aveva fatto con quella di Bellini e di Giorgione. Il suo enorme patrimonio finanziario finì al figlio Pomponio, che lo dilapidò in meno di cinque anni.

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